Erbetta, A. (2001). Il tempo della giovinezza. Situazione pedagogica e autenticità esistenziale. Firenze: La Nuova Italia. 3-5.
Niente di più facile, si direbbe, che parlare e scrivere di giovinezza. Eppure, allo stesso tempo, niente di più difficile. Niente di più facile, forse, se la giovinezza la si cerca nel supermarket della felicità e della bellezza a buon mercato, affidandoci noi al luogo comune di un’età spensierata per antonomasia: lì, infatti, il problema della sua interpretazione cederebbe il passo alla descrizione di un mito – il mito del giovanilismo – che in fondo appartiene a ciascuno di noi, vincolati, come di fatto siamo, al desiderio di un’eternità che il suo appagamento lo può anche trovare, allora, nell’evasione a ritroso delle proprie fantasticherie.
Ma quando quello stesso fantasticare, tutto raccolto in prossimità di una giovinezza svanita, ci dice di un uomo che soffre, magari affannandosi allegramente alla ricerca di una silhouette d’accatto, in quell’istante ci si apre dinanzi agli occhi una realtà assai più problematica e inquietante. La realtà di una giovinezza pronta a tendere l’agguato di una domanda impertinente che di nient’altro ci chiede ragione, in fondo, se non della fedeltà di cui nella nostra vita siamo stati capaci.
È in quel momento, dunque, che essa diventa l’argomento più difficile, se non il più scabroso, che ci tocchi prendere in considerazione, se non altro perché anche la giovinezza è prima di tutto un’esperienza vissuta che – come insegna la fenomenologia – non può diventare autenticamente oggetto d’interpretazione se non portandosi dietro tutta la corposità esistenziale di chi la interpreta, pena la sterile saccenteria di un sapere anonimo, tanto più inutile quanto più pedagogicamente edulcorato e disciolto nella segreta tentazione edificante che da sempre insidia la vita dell’educatore non abituato a sorvegliare, in primo luogo, la sua stessa vita.
In questo senso, dunque, una “pedagogia della giovinezza” è, prima di ogni altra cosa, un esame di coscienza che certamente le sue ragioni le cerca – a muovere da un incipit autobiografico che vive nell’acclarata metodologia fenomenologica del raccontarsi – anche nel rigore metodologico della descrizione empirica di un’età della vita sociologicamente e psicologicamente esperibile e normativamente rappresentabile, salvo avvertire come la sua interpretazione, almeno quella orientata verso l’operatività educativa, non possa tuttavia che affidarsi a una più radicale percezione esistenziale della sua natura.
Vale a dire alla radice della nostra moralità come condizione di senso della nostra esistenza, sempre che in essa si cerchi, giustappunto, quel che non ci può dare il supermarket, ma che troppo spesso vien difficile trovare anche nel mondo dell’educazione intenzionale: ciò che in altre parole ci dice del nostro destino di uomini in formazione, consapevoli del fatto che nell’educazione ne va di noi solo quando si riconosca che noi tutti siamo un gesto carico di responsabilità , e non la facile intenzione di un’anima bella che la vita, con cinico e spietato realismo, s’incaricherà di smentire a ogni piè sospinto. […]
Di qui l’idea che il tempo della giovinezza non possa farsi pensare, dunque se non come esemplare situazione pedagogica. Una situazione che il suo paradigma formale lo trova piuttosto nell’autenticità esistenziale, vale a dire in ciò che, connotando la vita del giovane nei termini di una tentazione d’assoluto – poter essere e diventare tutto quel che si vuole, senza mai prendere la decisione di essere qualcosa piuttosto che nulla – lo fa vivere nella tragica scoperta della moralità. Una moralità dalle mani sporche, per usare l’immagine cara all’esistenzialista, in cui ciascuno realizza il proprio progetto formandosi, facendosi, impegnandosi, sbagliando, senz’alcuno stereotipo di formatività che lo liberi dalla responsabilità della scelta e della decisione. Eppure sapendo, quell’uomo, di bersi, nello stesso momento, la sua libertà, e dunque sperimentando in chiave decisamente pedagogica il dolore che l’educazione porta con sé.
Qualcosa, tutto questo, che smentendo la convenzionalità di un’immagine superficiale e bislacca, chiede a ogni educatore che si rispetti, e qualunque sia il suo campo d’azione formativa, di saper vedere nella giovinezza il momento decisivo della vita, quello in cui appunto ne va di noi nell’istante in cui lo si riconosca come il luogo nel quale ciascuno, in fondo, decide di diventare quel che egli è piuttosto che quello che il mondo – con sottile e levigata illibertà – gli chiede di essere.