Editoriale, N. 2 Nuova serie – Anno I 2005

EDITORIALE

Si sa: le parole sono meretriculae. Nel momento stesso in cui esse nominano qualcosa, nel medesimo istante ci tradiscono alludendo ad altro. Magari a ciò che finisce per negare proprio quel che in punto d’avvio sembrava affidato, invece, al rigore semantico di un significato inequivocabile. Ed è a questo destino ambiguo, dunque, che la nostra stremata modernità sembra consegnare anche il termine “conflitto”. Ovverosia una di quelle parole-chiave che hanno attraversato, nel bene e nel male, tutta la cultura europea del XX secolo, e che, in virtù della polisemia che essa porta con sé, oggi sembra consegnata ad un inesorabile slittamento semantico. Quello slittamento in virtù del quale l’ideologia della fine delle ideologie non ne consente più l’uso se non per evocare l’orrore della sopraffazione, facendo in tal modo del conflitto medesimo – condannato per un verso a manifestarsi come sintomo di un disagio e, per altro e più generale aspetto, a sinonimo di violenza – un simbolo di negatività sociale verso cui esibire il sentimento superficiale e consolatorio della ripugnanza etica.

Il fatto è che la dimensione contrastiva che si inscrive nell’idea di conflitto non è affatto riconducibile tout court a simile banalizzazione ideologica. E tanto meno all’atroce tragedia che il suo uso mediatico adombra. Laddove il problema teorico e pratico che alla categoria di “conflitto” conviene è ben altro: quello, tutto fenomenologico, di scovare nella tensione che inerisce al rapporto tra le cose la possibilità di un progetto, di un telos. Ovverosia di una pratica di mediazione – soggettiva e intersoggettiva insieme – a sua volta pronta ad interpretare la plasticità che regola qualsiasi sistema di relazioni, fino alla capacità di tradurre quella medesima tensione in risorsa culturale da porre – una volta che essa venga liberata dal mito della forza – al servizio di una concreta idea di formazione.

Non è un caso, d’altra parte, che fin dagli esordi del XX secolo, una delle più acute genialità intellettuali d’Europa – Georg Simmel – ne avesse interpretato per via sociologica e per via filosofica il senso, quando, a proposito di “conflitto”, egli lo aveva riconosciuto come il vero luogo di possibile fondazione della modernità. Tanto da rappresentarcelo come drammatica chiave di comprensione, sia dei fenomeni sociali così come dei tipi individuali, sia come manifestazione delle forme infinite entro cui si esprime la vita di cultura, così come cifra problematica che segna l’interconnessione degli stili psicologici e sociali che danno forma autonoma all’uomo della città moderna. E dunque: il conflitto come espressione dinamica dell’esperienza soggettiva di vita e come manifestazione dialettica dei processi di coesione sociale.  

Di qui, allora, la necessità di decostruire i luoghi comuni che, con attitudine retorica, evadono dal tema in questione, per tentare, invece, la via di una sua chiarificazione problematica, sia sul versante della sua oggettività storico-sociale, sia su quello delle sue più intime implicanze intrapsichiche, sino a tentare la via di una ricompresione teorica della sua doppia risonanza formativa.

Per un verso infatti la formazione si dà, iuxta propria principia, proprio in termini di conflitto, tanto quanto non v’è processo educativo che non sorga, complesso e dinamico, dalla trama degli urti e dei contrasti, interni ed esterni, che caratterizzano il percorso esistenziale dell’uomo. Così come, per altro aspetto, il conflitto medesimo si fa conflitto formativo nella misura in cui esso sia capace di dettare le regole di una educazione al conflitto. Ovverosia di una consapevolezza “pedagogica” che, nella concretezza delle pratiche educative, sappia ricondurre la coscienza soggettiva ad un grado di maturazione storico-esistenziale pronta a fronteggiare quelle medesime tensioni, non già nei termini, tanto cari al moralismo dell’anima bella, della loro presunta e facile negatività etica, quanto come segni di una dura responsabilità intellettuale e sociale che al mondo della formazione chiede, prima di tutto, il coraggio dei una analisi spregiudicata.

Quanto basta, insomma, per dedicare alla questione gran parte di questo secondo numero di “Paideutika”, nella consapevolezza che se qui non si troveranno risposte rassicuranti alle inquietudini che essa evoca, certo vi si potranno rintracciare percorsi di lettura che, nella loro stessa discontinuità problematica, di quell’impegno e di quella responsabilità si fanno testimoni veraci.  

Antonio Erbetta