La libertà d’insegnamento sancita dalla Costituzione Italiana è forse una delle più importanti garanzie politico-giuridiche del nostro Paese, sia per le ragioni istituzionali che regolano il sistema di istruzione, sia per gli aspetti culturali e formativi ad esso connessi. In tale ambito, sono molteplici i significati di libertà elaborati nel corso del tempo e messi al servizio della comprensione (prima che del giudizio) dei processi educativi.
Significati, questi, tesi a metterne a fuoco i paradossi, a progettare modi per realizzarne i propositi, radicandone il senso nel più ampio quadro socio-culturale. Gli esiti di tali contributi, pedagogicamente problematici e sempre connessi al dinamismo storico, si sono dimostrati tutt’altro che secondari, vista anche la ricorsività con la quale torna in primo piano la questione sostanziale della libertà d’insegnamento.
Per un verso, infatti, si tratta di garantire una cultura libera, non ideologicamente strumentalizzabile. Per altro verso, si tratta di garantire la libera espressione della personalità individuale tramite quelle forme di cultura che meglio la rappresentano e che più contribuiscono a costituirla. In terzo luogo, si tratta di raccordare le prime due istanze attraverso un modo di educare insegnando che dipende prevalentemente dall’insegnante e dalla sua libertà/responsabilità. Ed è forse proprio in quest’ultima direzione che
andrebbe rinnovata l’attenzione pedagogica.
A lungo considerato prigioniero di programmi scolastici stringenti, poi chiamato a centrare la sua professionalità sull’apprendimento anziché sull’insegnamento, oggi alle prese coi vincoli dettati dalla digitalizzazione di saperi, dai metodi e dalle prassi valutative, l’insegnante – e l’insegnamento – sembrano assai più costretti a funzioni esecutive che liberi di interpretare l’agire culturale in chiave formativa. Senza contare, poi, l’irriducibile vincolo delle circostanze primarie: quelle ambientali e strutturali. Le
uniche, forse, deputate a descrivere i reali confini d’intervento. 
Nel contempo, libertà d’insegnamento e libertà dell’insegnante sono proprio ciò che consente all’istanza giuridica di favorire un’altra fondamentale garanzia, questa volta etico-politica: la possibilità di trasformazione economico-sociale del Paese. Se, dunque, questa preoccupazione è oggi così urgente, è semmai perché in quel binomio di libertà risiede (ancora) la possibilità di educare e formare tout-court. Cioè la possibilità di fare della cultura il migliore strumento di emancipazione individuale e di sviluppo sociale.
In questa chiave, come dimostra Maria Volpicelli, è proprio a partire dal quadro giuridico che è possibile agire per formare le libere personalità degli allievi. Ma tale primario statuto di libertà necessita di una solida
struttura del sistema di istruzione che, storicamente, ha avuto inequivocabili matrici ideologiche. È esemplare, in questo caso, il rapporto tra cultura e politica evidenziato da Gozzelino a proposito della nascita della scuola elementare pubblica, obbligatoria e gratuita nello Stato sabaudo. Ma, certo, lo stesso rapporto tra cultura e politica non può – né ha mai potuto – fare a meno di una quale che sia rappresentazione dell’uomo, in quanto espressione del presente o degli orizzonti educativi, come dimostrano lo studio di Pinciroli sulla formazione dell’uomo disalienato nell’Adorno meno noto e lo studio di Briola sull’idea di enérgeia e di uomo in Humboldt.
Di qui la decisività dei modi dell’educare, che di quegli orizzonti si alimentano e che pure contribuiscono a definire. È il caso del metodo ‘socratico’ di Minna Specht, descritto da Seveso, che vale non solo quale
strumento didattico applicato all’infanzia e al suo quotidiano, ma anche quale pretesto di riflessione sui limiti e sul ruolo dell’insegnante. È il caso, anche, del bello e delle sue possibilità pedagogiche di senso esplorato, attraverso Arendt, da Billitteri e dell’esperienza artistica e di appropriazione territoriale studiata da Ayasse a Rennes, in quanto possibile occasione di sperimentazione identitaria. Fino ai significati impliciti – ma ‘pedagogicamente’ persuasivi – dei puntini di sospensione nella comunicazione mediatica (Seoane), oppure alle attualissime pagine di Monti sulla ‘lezione di letteratura’ e sull’uso dei testi (“Archivio della memoria”).
Quanto basta, forse, per trovare alcune ragioni utili ad interrogare ancora una questione tanto complessa.

E.M.


 

 

In riferimento al peer review process Paideutika ringrazia Francesca
Antonacci (Università di Milano-Bicocca), Pierangelo Barone (Università
di Milano-Bicocca), Elsa Maria Bruni (Università di Chieti-Pescara),
Giuseppe Burgio (Università Kore, Enna), Massimo Canevacci (Universidad
Federal de Santa Catarina, Brasil), Carlo Cappa (Università di Roma-Tor
Vergata), Mino Conte (Università di Padova), Giancarlo Depretis (Università
di Torino), Silvia Demozzi (Università di Bologna), Dario Forti (Ariele,
Associazione di psicosocioanalisi), Michele Lorè (Università Niccolò Cusano),
Raffaele Mantegazza (Università di Milano-Bicocca), Mariagrazia Margarito
(Università di Torino), Cristina Palmieri (Università di Milano-Bicocca),
Roberto Santoro (Università di Torino), Gilberto Scaramuzzo (Università di
Roma Tre), Vincenzo Schirripa (Università LUMSA, Roma), Furio Semerari
(Università “Aldo Moro”, Bari), Gabriella Seveso (Università di Milano-
Bicocca), Giancarla Sola (Università di Genova), che, con responsabilità e
competenza, hanno valutato i contributi pubblicati nel 2017.