Editoriale n. 25 Nuova Serie – Anno XIII 2017 – Educare nel sociale

 

EDITORIALE

Uno dei campi d’indagine culturale ad oggi più vasti e più dinamici riguarda le forme sociali dell’educazione. Non solo, quindi, le forme delle prassi educative ma anche di quelle complesse reti d’azione pedagogica che incrociano paradigmi culturali tradizionali, spinte all’innovazione e alla cooperazione istituzionale, esigenze economico-organizzative, processi governamentali e politiche amministrative. Tale interesse è dovuto, verosimilmente, a molti motivi, la maggior parte dei quali, tuttavia, sembra rinvenibile nell’attuale circostanza storica, caratterizzata da una sempre più pervasiva attenzione alle forme della materialità contingente. Un’attenzione, peraltro, mediaticamente catalizzata in senso negativo, come espressione dei rischi o delle inefficienze di un sistema inevitabilmente vulnerabile. In questi casi, l’educativo diventa giocoforza uno dei territori privilegiati di condizionamento e di controllo funzionale, perfino attraverso la sua implosione strutturale in formule gestionali del tutto avulse dai tempi distesi e dall’incedere problematico che gli è proprio. Ma vi è anche un’attenzione meno superficiale e meno strumentale che fa dei molti contesti educativi altrettanti luoghi di una “leggibilità del mondo” stratificata su più livelli di analisi. Intesa, volta a volta, come costo da abbattere o come sismografo dello stato di salute sociale; come palestra per l’addestramento performativo o come luogo di contenimento del disagio; come spazio d’azione sperimentale e di ottimizzazione cognitiva o come dispositivo del nuovo welfare, l’azione educativa è venuta pluralizzandosi, specializzandosi e ramificandosi in molti dei gangli vitali – più o meno istituzionalizzati – della socializzazione. È a partire da queste considerazioni e per la ricchezza di indizi che i mondi dell’educazione offrono alla comprensione del nostro tempo che Editoriale 6 Paideutika ha lavorato alla costruzione di questo numero, curato da Gianluca Giachery, al cui prezioso lavoro di coordinamento dobbiamo gran parte del risultato finale. Convocando a discutere di questi temi chi nel e sul sociale lavora, con diversi ruoli e attraverso diversi approcci, si è tentato, in primo luogo, di dare spazio – scientifico e culturale – alle questioni in campo. In secondo luogo, si è tentato di rivendicare la problematicità del sapere e dell’agire educativi come punti di forza non solo dell’ordine intellettuale del discorso, ma anche della sua funzionalità civile e politicoistituzionale. In questo senso, la contraffazione costante dei significati della crisi del nostro tempo nelle forme più recenti del “neoliberismo neocompassionevole” analizzato da Sergio Tramma ha, finora, collezionato esiti tutt’altro che risolutivi, sia dal punto di vista educativo-sociale, sia dal punto di vista del dibattito culturale, sempre pronto a mettersi al servizio di un ‘pensiero critico’ tragicomicamente epurato dalla sua dimensione conflittuale. L’idea di rimettere in discussione alcune categorie fondamentali del pedagogico trova corrispondenza anche nel saggio di Vergani, che, rileggendo in chiave weiliana la dimensione del ‘bisogno’ e ponendola in relazione antiretorica con l’istanza del ‘desiderio’, le restituisce, innanzitutto, i connotati ambivalenti di necessità ed ingiunzione. La stessa relazione tra bisogno e desiderio, del resto, si incarna nelle nuove forme giovanili di dipendenza da sostanze psicoattive descritte da Leopoldo Grosso. Si tratta di dipendenze sempre più legate a desideri di “spettacolarizzazione”, di fuga e di sofferenza identitaria la cui problematicità primaria è drammaticamente connessa, in virtù di numeri certo non esigui, alla difficoltà stessa d’individuazione e alla corrispettiva assenza di domanda educativa. È ancora un’antinomia, quella tra ‘sogno’ e ‘compito’, individuata da Paolo Magatti, a farsi chiave di comprensione dei dinamismi psicosociali che s’insinuano tra progettualità soggettiva e performatività richiesta nei luoghi di lavoro. Il transito dal “soggetto organizzativo”, strumento della logica iper-efficientistica del post-fordismo, al “gruppo operativo”, strumento formativo della psicosocioanalisi, diventa, allora, una pratica significativa di riconquista del possibile. Un ponte utile, questo, anche sul fronte del lavoro degli operatori sociali e sanitari, non solo troppo spesso sacrificati dal punto di vista della loro riconoscibilità sociale, ma soprattutto, come dimostra Antonio Colonna, sempre più vincolati ad un paradigma sanitario di operatività che riduce la dimensione relazionale alle logiche 7 della strumentalità e della dipendenza. Sicché, ciò che si mostra sul piano della materialità di cui si diceva è, infine, una preoccupante deriva della natura più strettamente umanistica dell’educativo, mettendo a rischio la riuscita stessa dell’intervento sociale. È questo, infatti, ciò che mette in luce Salvatore Rao argomentando le ragioni di un welfare sempre più penalizzato da concezioni produttivistiche che lo risolvono, sic et simpliciter, in un costo da ridimensionare, anziché riqualificarlo come investimento in una effettiva e potenziata pratica sociale. Si tratta, complessivamente, di tendenze sempre più diffuse e sempre più radicate, che paiono piuttosto sorde alle conseguenze – cioè agli altissimi costi sociali – del fallimento del welfare. In questo quadro così composito, le due digressioni sulla idea di “Impure Education” e sull’ennesimo massacro di una minoranza, quella Yazidi, fanno da corollario, insieme alle Rubriche e alle recensioni, all’ostinata intenzione di questa Rivista di continuare a dare voce ad alcuni dei molti silenzi dell’educazione che si consumano lontano dai nostri sguardi, dalle nostre letture e talvolta persino dal nostro dibattito culturale.

E.M