Erbetta, A. (1992), Il Paradigma della Forma. Studi pedagogici, Roma: Anicia.

 

Nella dimensione educativa l’uomo esperimenta sempre, a ben vedere, la possibilità di una trasformazione che, nel ricondurre la vita ad una qualche sua forma, sembra infine risolvere l’angoscia di un originario ed oscuro squilibrio: dalla desolante anomia di un’anima dominata dalla cosità della vita, all’estrema dignità di un’esistenza impegnata a vincere l’opacità del mondo; dall’estraneità muta che punisce l’uomo gettato fra gli uomini, alla sovrana responsabilità morale della sua coscienza fattasi lucida interprete degli sguardi altrui; dall’ybris che ci condanna alla violazione delirante del nostro possibile orizzonte di senso, all’eco di una interiorizzata consapevolezza del limite che ontologicamente ci sovrasta.

Un percorso problematico, questo, che simultaneamente accede a quell’idea regolativa della Bildung – civiltà e cultura, educazione e sviluppo, fondazione e creazione -, come si accede alla nostra possibilità di esistenza. Cosicché solo nella prospettiva ideale di una risoluzione unitaria delle suggestioni parziali che popolano il nostro inquieto paesaggio interiore ci si può veramente affidare alla speranza di una redenzione pedagogica del mondo; ovvero ad un’etica dell’ulteriorità che, strappandoci dal dominio di una irrimediabile e fuorviante contingenza, ci salvi dalla dura necessità degli stati di fatto.

Eppure non vi sono – ciascuno di noi lo può veramente avvertire – garanzie sufficienti a proteggere l’esistenza dalla febbrile scoperta della fragilità etico-intellettuale (e solo di conseguenza psicologica) che sempre ci si ripropone dinanzi agli atti eversivi della vita. Quegli atti, cioè, che scompaginando l’ordine di qualsiasi forma denunciano la nostra appassionata vocazione di rivolta – ciò che in filigrana può anche apparirci come oscura ‘protesta contro la morte’ -, quasi che nelle pieghe della relazione uomo-mondo costantemente l’anima delle cose fugga con orrore dalle regole cartesiane della concettualizzazione intellettuale: destinata a farsi permanentemente più-che-vita ed a costituirsi così come Simmel agli esordi del Novecento (1) – spezza sempre le forme che essa stessa produce. Le contraddice in nome di una rivelazione più profonda dei nostri conflitti esistenziali e le smentisce, dopo averle sostenute, come residui obsoleti di una cultura malata. Le fa tramiti, insomma, di una indomabile esigenza di crisi.

È alla luce di tale permanente conflittualità, dunque, che la coscienza pedagogica continuamente inciampa nelle trame dissipanti dell’esperienza vissuta, la quale, in opposizione radicale a qualsiasi pretesa precettistica, all’infinito ridetermina le condizioni di una qualsiasi ‘forma’ etico-intellettuale, ridefinendo così l’orizzonte di significato entro cui l’impregno della pedagogia può costruire le sue ‘verità’.

Di qui l’ethos di un discorso dubbioso e sofferto, alla continua ricerca di una sua stabilità teoretica nell’ambito di una sempre più avvertita inquietudine critica. Un’inquietudine tanto più ‘devastante’ quanto più radicali si rivelino i luoghi del discorso che, alle prese con il senso stesso dell’esistenza, denuncino in tal senso il disagio di una pedagogia fatta interprete della tragica relazione ragione-vita.

Nel contesto di simile esemplarità l’idea della Bildung incontra dunque l’orgogliosa prova di una interiorizzazione critica che paradossalmente la espone al rischio di una più seria verità. Ed è questa, forse, la ragione per la quale anche alla pedagogia tocca in sorte, tra le più diverse espressioni a volte aspre della vita stesse, il compito di rimuovere la banalità che tenta di indurci all’oblio del rapporto radicale che intercorre tra [greco] e [greco]. Ovverosia di quella ‘educazione all’amore’ che, irriverente banco di prova culturale, a tutta la sfera educativa può infine donare – attraverso ‘parole’ rilkianamente più ‘pure’ – il significato della sua stessa finalità morale.