Editoriale, N. 10 Nuova serie – Anno V 2009 – Etiche dell’impegno

 

EDITORIALE

La figura fenomenologica dell’engagement appartiene, com’è noto, all’atmosfera culturale europea che s’afferma con pienezza all’indomani della seconda guerra mondiale. E se è vero che essa ha molto a che fare con gli ambienti parigini del tempo – Sartre su ogni altro – è altresì vero che per molto tempo, dagli anni Cinquanta in avanti, l’intellettuale engagé ha rappresentato l’idea che non vi fossero compiti specifici e/o saperi specialistici che non esigessero una presa di posizione più generale sul mondo. In ogni caso qualcosa che, anche se diluito oppure frainteso, non cogliesse il tema della responsabilità morale come nucleo generativo del lavoro intellettuale. Tanto che, anche in ambito pedagogico, quell’esigenza veniva intercettata dalla parte migliore della nostra filosofia dell’educazione: si pensi, ad esempio, a Etica e pedagogia dell’impegno che Giovanni Maria Bertin dava alle stampe nel 1953.

Di cosa si tratta, in verità? Del rapporto che intercorre tra il lavoro intellettuale e la necessità morale che ne detta le ragioni. Non già per consegnare l’opera – con particolare riguardo all’opera d’arte – a un criterio estrinseco di valutazione assiologia, quanto piuttosto per coglierla, più generalmente, ‘nel suo significato per l’uomo’. Qualcuno potrebbe anche dire: nella sua capacità pedagogica, ma non certo didascalica, di agire con la forza della liberazione. Magari per una legge di contrasti provocatori e di visioni controcorrente che costringano alla fatica durata di un pensiero in situazione cui presieda l’idea secondo la quale nella scrittura ne va del destino dello scrittore.

Orbene: l’Entretien che l’amico Forest, in raffinato dialogo con Gabriella Bosco (sua traduttrice italiana), ha concesso a Paideutika non è che lo squadernarsi del tema nella sua stessa intenzionalità segreta, al punto da dirci – e proprio tramite un intellettuale che rinnova, con Gallimard, la tradizione delle decisive cerchie culturali che hanno caratterizzato il nerbo della cultura francese novecentesca – la permanenza polemica della questione versus la leziosità delle scritture partorite dall’industria culturale. Fatta salva la propensione, ironica e puntuta, di Fulvio Papi che, tra letteratura e letteratura – e “senza risentimento” – prende in considerazione la “letteratura di consumo” non già per segnare la presunta “morte della letteratura”, quanto piuttosto la complessità di un quadro sociale e filosofico entro cui a morire, con le conseguenze del caso, sembra piuttosto essere la solitudine dello scrittore.

Etiche dell’impegno, dunque, non più declinabili al singolare, tanto da legittimare, in più stretta chiave formativa, le lucide e profonde pagine di Fabrizio Ravaglioli al quale – lontano dalla tradizione teoretico-sociale di Paideutika – va la stima affettuosa e riconoscente che si deve esattamente a un intellettuale sicuramente controcorrente cui spetta il merito, sopra ogni altro, di aver lavorato – e di continuare a farlo – senza mai badare al consenso, secondo una lezione di moralità che esige attenzione radicale e rispetto profondo.

Ma sono poi gli studi – Lazzari su Kant, Calvetto sull’alienazione, Stanizzi su Sarah Royce – a restituirci un’ampia teoria di suggestioni e di analisi tramite le quali l’engagement resta per noi punto fermo di riferimento. Così come, per le istituzioni educative, esso permane a dirci di una intramontabile responsabilità sociale dell’educativo. E via di questo passo.

Perché mai stupirsi, allora, se in quest’occasione, a dar voce alla memoria, abbiamo convocato Simone Weil? C’è qualcosa di più formativamente intenso, infatti, che non sia la denuncia aspra del lavoro alienato come cifra – in superficie appannata – del dovere emancipativo che, in ultimo, vive nelle viscere dell’impegno?

Antonio Erbetta