Editoriale N. 21 Nuova Serie – Anno XI 2015 – Senso e azione in educazione

EDITORIALE

Se c’è una questione che emerge con continuità dai contributi che compongono questo secondo fascicolo dedicato al rapporto tra senso e azione è quella del nesso che, in educazione, le lega. Al di là delle dichiarazioni di principio che, in quanto tali, negano alla discorsività interrogante qualsiasi forma di argomentazione critica, espressioni come praticare il senso o il senso delle pratiche vengono correntemente utilizzate da certa letteratura pedagogica come passepartout funzionali all’autolegittimazione formale. Tanto da potersi sostituire l’una all’altra senza difficoltà, quasi che prassi, azione e pratiche fossero sinonimi privi di una propria storia semantica, allo stesso modo di senso, teoria e razionalità esplicativa.
Eppure, se non è difficile intendere come il senso non possa mai essere un’entità a sé da poter tradurre in azione e se è altrettanto intellegibile che il senso delle pratiche è (o non è) nelle pratiche concrete – e quindi non è possibile descriverne i contorni se non descrivendo le pratiche nelle situazioni circostanziate in cui esse hanno avuto luogo –, allora bisognerebbe partire da un diverso presupposto. Ed è quello che, in questo numero di Paideutika, in maniera trasversale, è accaduto.
Se tale questione pedagogica pare ancora – finora – davvero troppo trascurata è forse per il fatto che essa chiama in causa ripensamenti radicali. Il presupposto, infatti, è divenuto quello che il senso possa non esserci. E che simile possibilità non debba essere liquidata.
Intanto perché, come ricorda Rita Fadda, l’esistenza di per sé non contempla affatto il senso tra i suoi tratti costitutivi. Anzi: l’esistere, semmai, genera il pathos della mancanza, fino a fare della tensione patica stessa il senso dell’agire e dell’esistere. E di un agire, in particolare, che proprio a quella tensione vuole rispondere, con piena consapevolezza della responsabilità che ciò implica.
In secondo luogo perché, come vuole Mottana, l’idea che il senso abiti il ‘prima’ o il ‘dopo’ l’accadere dell’evento può essere un grave pregiudizio. Laddove, invece, a restituire contenuti al senso sembra proprio essere l’imprevedibilità dell’evento e il suo mutare costante, rispetto al quale, allora, andrebbe educativamente recuperata l’“adesione” all’evento, diventando “degni di ciò che accade”.
In terzo luogo perché, con Elsa Maria Bruni, la questione del senso fa leva sull’idea stessa di educazione in quanto relazione intersoggettiva. E se fare i conti con tale relazione significa soprattutto fare i conti con l’imprevedibilità del possibile e con la contingenza trasformativa della storia e della società, allora va anche riconosciuto che “la significatività dell’educere” non può che abbandonare quei connotati che tradizionalmente siamo avvezzi ad attribuirle.
Per queste ragioni – e per le molte altre che ancora sarebbero possibili –, alla luce di un nesso tra senso e azione che può anche mancare, non possono stupire quei precipitati contingenti di azione educativa che, in diversi contesti operativi, diventano sintomi di una insufficienza. Come nel caso del riproporsi cogente del problema della coercizione in psichiatria, per il quale, grazie all’analisi di Elvezio Pirfo, risulta evidente come l’imposizione di un senso ex ante, per esempio di natura giuridico-legislativa, rischi di mancare il fondamentale bersaglio sia della cura sia della garanzia.
Allo stesso modo, quando l’istituzione scolastica diventa, come ritiene Ferdinanda Chiarello, il banco di prova di una – sia pur ‘sensata’ – intenzione politica, anziché essere il risultato di un nesso stringente tra esistenza e cultura, allora la deriva di una “scuola in crisi” sembra sempre meno arginabile. Non che in ambito universitario accada qualche cosa di diverso quando, come sostiene Asger Sørensen riferendo di un emblematico caso danese, si scontrano due idee inconciliabili di cultura e di formazione.
Così, come i nostri Lettori sanno da tempo, la portata paradossale di un’etica formativa vincolata alla scelta conduce, con le riflessioni di Vasco D’Agnese a proposito di Heidegger e di Gadamer, ad una responsabilità pedagogica radicale.
La stessa responsabilità che ha voluto prestare attenzione, con questi due numeri che commentano lungamente il primo decennio di vita di Paideutika, alle possibili conseguenze di una perdita – quella del senso – tanto dirompente per l’agire quotidiano quanto benefica per una rinnovata riflessione sulle fenomenologie attuali del senso e del non-senso.

Elena Madrussan