Editoriale, N. 9 Nuova serie – Anno V 2009 – Dopo l’educazione

 

EDITORIALE

Molteplici sono le ragioni che fanno di questo numero di Paideutika un evento speciale. In primo luogo, certamente, il fatto di uscire con un nuovo editore, Ibis, che con sé porta elementi non insignificanti di rinnovamento grafico. Elementi che, sottolineando in particolare l’accentuazione monografica dei singoli numeri, in prospettiva non alterano, tuttavia, l’ordine articolato delle diverse sezioni interne, salvo dare spazio – come in questo caso e come è già accaduto in passato – a formulazioni compatte di temi e problemi nati da circostanze peculiari e/o da urgenze indifferibili.

Eppure tale evidenza – tutt’altro che semplice gesto di cosmesi editoriale – allude a una esigenza più profonda: presentarsi con sempre più attenta puntualità al cospetto delle situazioni concrete, sia che queste ci chiedano una restituzione rigorosamente concettuale dei problemi che ci circondano, sia che esse esigano l’esplicazione intelligente e fenomenologicamente accurata delle trasformazioni sociali e culturali che danno vita alla drammaturgia formativa del nostro tempo di vita.

Di qui la decisione della Redazione di affidare a questo nuovo esordio il compito, pressoché programmatico, di una tematizzazione – Dopo l’educazione – che prende corpo dal Convegno di studi che si è svolto a Torino nella primavera dello scorso anno, sotto l’egida della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere e del Dipartimento di Scienze dell’educazione e della formazione di quell’Università, con il patrocinio della Città di Torino e del Cirse.

In quei due giorni la scena, popolata da alcuni tra i più significativi filosofi italiani dell’educazione, ci ha regalato l’ordito di una riflessione a tutto campo che impegna la nostra coscienza pedagogica a fare i conti con “permanenze, sconnessioni, prospettive” in virtù delle quali nessuna scorciatoia retorica è oramai tollerabile. A meno di evadere, col pensiero del sorvolo, dalla consistenza storica dei nostri problemi formativi.

Ora la stessa scena, grazie all’impegno degli Amici che tanto autorevolmente hanno messo al servizio di Paideutika la loro serietà culturale, è restituita al lettore. Ed essa è pressoché prefata dalle pagine esemplari che nel medesimo torno di tempo – e indipendentemente dal Convegno in questione – Fulvio Papi ci ha voluto donare.

La gratitudine, dunque, è forte. Ma più forte ancora è l’acuta percezione della questione: a quali condizioni è possibile, oggi, rinnovare l’impegno pedagogico? Quali le discriminanti teoriche che simile impegno esige? E a quali depositi storiografici sarà legittimo attingere per piantare le nostre pratiche discorsive in un terreno il meno franoso possibile? E in vista di quale mondo?

Si dirà: esercitazioni accademiche che, come la fantasticheria, “colano come resina dalle menti ferite”. Orbene, la risposta a tale eccepimento irridente non può stare in alcuna perorazione astratta che, evocando una inesorabile “fatica del concetto”, ci costringa al rispetto formalistico delle idee. Quasi che in giuoco vi sia la patetica compassione per una vecchia zia cui va l’untuosa riconoscenza di chi attende solo la sua morte per riscuoterne l’eredità. Più puntualmente si tratta di valutare, con la giusta attenzione, la portata delle risonanze critiche che quelle argomentazioni portano seco. Magari per rintracciare nelle loro pieghe il mondo che, a occhio nudo, ci viene incontro nelle parvenze inesplicabili che l’ideologia impone alla nostra coscienza adesa alla superficie delle cose.

Ma questo è esattamente il compito che si assume una pedagogia come critica della pedagogia: introdurre la zeppa inquietante della scepsi laddove omogenea ed opaca ci si presenti, con rassicurante sproblematizzazione, la trama delle nostre visioni ingenue. Non foss’altro per aderire – in compagnia della collana Formazione e Cultura che in questi stessi giorni esordisce con Ibis – al logo che Paideutika si porta dietro da sempre. Ovverosia l’elaborazione grafica di una celebre statua-stele della Lunigiana che ci dice di un popolo di barbari arrivati dal mare, “testimoni dell’ultima rivoluzione culturale della preistoria”.

Antonio Erbetta